Style: il Generale (un po’) Mourinho
Pubblicato su Style, venerdì 27 giugno 2014
Classe 1953, mantovano di nascita e alpino per vocazione, Giorgio Battisti è attualmente il nostro soldato più conosciuto all’estero. Generale di Corpo d’Armata, generale-tre-stelle come di dice in gergo, è stato in Somalia, in Bosnia e dal 2001 quattro volte in Afghanistan, fino a gennaio di quest’anno, dove ha chiuso come Capo di Stato Maggiore della missione internazionale ISAF. Al suo comando, si sono alternati oltre 400 soldati italiani inseriti in un contingente composto da 50 nazionalità.
Dietro il Generale, dal 2011 Comandante del Corpo d’Armata di Reazione Rapida della NATO in Italia, dietro il soldato però, c’è sempre l’uomo, con le sue passioni. E anche queste vanno raccontate.
Quando non è in servizio, il Generale Battisti sta in famiglia con la moglie Simonetta e i quattro figli: Alessio, anche lui ufficiale degli alpini, Umberto, Filippo e Cecilia. Da buon alpino vive la montagna tra sci e passeggiate ed è sempre stato un runner. Non a caso è scattato alla testa dei suoi uomini anche nell’ultima Stramilano.
Ma la passionaccia vera è tutta calcistica e si chiama Inter.
Cominciamo però dal lavoro, ovvero dall’Afghanistan: «E’ un Paese di grandi conflitti ormai da 40 anni – spiega Battisti – prima di noi ci sono stati i russi, ma nessuno li aveva chiamati. Nel 2001 la comunità internazionale si è invece mossa su precisa richiesta del governo provvisorio afghano. L’Onu e le altre istituzioni hanno sempre cercato una soluzione politica e la forza militare internazionale è servita per mettere il popolo in sicurezza accompagnandolo verso l’evoluzione sociale ed istituzionale».
E oggi come vanno le cose?
«Al nostro arrivo, tredici anni fa, la società afghana era ancora tribale: niente scuole, povertà, distruzioni ovunque, con le donne completamente ai margini della società. Oggi i giovani chattano, usano facebook e i social, nove milioni di bambini hanno conosciuto la scuola primaria e molta gente può finalmente accedere alla sanità. Solo a Kabul attualmente ci sono almeno 50 televisioni private, con possibilità di dialogo, di confronto, addirittura di critica. Qualcosa di inimmaginabile fino a pochi anni fa. E se in poco più di un decennio la società è cambiata tanto rapidamente è stato anche per l’impegno dei 50 Paesi che hanno fornito il sostegno militare per la sicurezza. Dal medioevo quasi feudale ci si è evoluti verso una sorta ‘risorgimento’ afghano. E, al di là dei tempi, più o meno lunghi, l’onda del cambiamento sociale difficilmente sarà fermata».
Si è pagato però anche un tributo di sangue, con oltre 2.300 caduti, tra cui 53 italiani in 12 anni di missione
«Ragazzi che sono morti perché l’Afghanistan avesse una speranza. Viviamo in pace da 50 anni e i nostri soldati hanno dovuto addestrarsi duramente non solo in previsione di scontri, ma soprattutto per conoscere una società molto diversa dalla nostra. So benissimo cosa voglia dire avere un figlio in Afghanistan, visto che uno dei miei ci è stato più volte, ma guai a mollare proprio adesso! Siamo nella delicata fase del passaggio di consegne alle forze afghane, che devono aumentare le loro capacità di controllo del territorio. Nell’ultimo anno le Forze Internazionali hanno supportato l’Esercito locale con consiglieri e specialisti, senza essere coinvolte in scontri armati. Per noi italiani, gli orientamenti a livello internazionale prevedono di mantenere una forza di 500, 600 uomini in qualità di addestratori e consiglieri militari. Parlamento e governo però non si sono ancora espressi in modo definitivo. Una presenza internazionale continua a essere necessaria perché in Afghanistan i problemi da risolvere sono ancora tanti, dalla condizione della donna alla corruzione, alla droga».
Oltre al soldato, c’è l’uomo. Come si vive in Afghanistan durante missioni così lunghe?
«Nel 2001, quando siamo arrivati, non c’era niente, nemmeno il riscaldamento e mangiavamo le nostre razioni K. Poi la base è stata attrezzata. Con l’arrivo del forno da campo, siamo riusciti perfino alla consuetudine della ‘pizzata’ settimanale. Nella base oggi si vive decisamente meglio. Negli avamposti invece le condizioni sono ancora simili a quelle delle trincee della prima guerra mondiale, ma con la tecnologia più moderna. Magari non c’è la latrina, ma c’è l’Ipad! Sono un po’ le contraddizioni dei nostri tempi. Appena possibile, bisogna però staccare e ricaricare le batterie, provando a fare le cose che si fanno quando si è a casa. Compatibilmente con le attività, io cercavo di andare spesso in palestra».
E l’Inter, la sua passione?
«Nel 2007 Sky ha gentilmente donato alla base un decoder e grazie a quello abbiamo potuto vedere alcune partite. In particolare ricordo con piacere il derby del Natale scorso, quello vinto dall’Inter col colpo di tacco di Palacio nel finale. Non tutti si sono divertiti (sorride, ndr): io, da interista, moltissimo! Comunque all’indomani, malgrado le tre ore di fuso orario, l’attività è ripresa come sempre dalle 7 del mattino».
Mentre Lei era in Afghanistan, l’Inter è stata ceduta a Thohir. Che ne pensa?
«Guardo con curiosità alla novità, come tutti. Anche il calcio sta cambiando, ma io sono un po’ tradizionalista per via della conoscenza personale col Presidente Moratti e col mio calciatore preferito, il Capitano Zanetti. D’altronde un militare di carriera non può non amare le bandiere. E, come ogni interista, ho voluto bene a Mourinho e non dimenticherò mai il Triplete».
In fondo un Comandante dev’essere come l’allenatore di calcio di una squadra con nazionalità diverse.
«I protocolli Nato sono fondamentali per questo, ma bisogna ricordarsi in ogni momento il contesto in cui si opera e metterci sempre qualcosa in più. Parlare fluentemente inglese o francese in un Paese con usi e costumi così diversi tra loro e dai nostri non è tutto. C’è bisogno di una sensibilità particolare e in questo noi italiani ancora una volta siamo stati apprezzati, forse più dagli altri che dai noi stessi. Per esempio, in tre mesi abbiamo progettato, costruito e inaugurato un monumento a ricordo dei caduti di tutti i Paesi con una bella frase di Kipling volutamente incisa anche nelle lingue locali Dari e Pashtu proprio per una forma di rispetto verso tutti i caduti. Il ricordo dei morti è la prima regola per il rispetto dei vivi. Così, alle 11,45 di ogni domenica, nel nostro Memorial Service a ricordo dei caduti durante la settimana, non sono mai stati trascurati gli afghani e insieme al nostro cappellano c’è sempre stato anche l’Imam.
Fare squadra, coinvolgendo tutti è la prima regola. Il 4 novembre scorso, anniversario dell’armistizio della prima guerra mondiale tra Italia e Austria, ho voluto che fossero un austriaco e un italiano a posare la corona del Memorial Day. In una missione internazionale dev’esserci spazio per tutti: da chi vi partecipa con 3.000 uomini a chi è presente magari solo con 3 Ufficiali osservatori».
A volte una partita di pallone può aiutare
«Abbiamo giocato un’amichevole contro una Rappresentativa militare afghana. Abbiamo perso 6-0, ma loro si erano portati un paio di professionisti direttamente dalla Nazionale maggiore. Il clima è stato molto amichevole, tant’è che ad un certo punto ci siamo accorti che i nostri avversari in campo erano in 12! E’ finita con una risata e con una festa, anche perché erano davvero più bravi. La verità è che anche in vicende quanto mai serie, come il processo di pacificazione di un Paese molto particolare, conta tutto, soprattutto stare insieme come persone prima che come soldati. E non è un modo di dire».
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“From little towns in a far land we came, To save our honour and a world aflame. By little towns in a far land we sleep; And trust that world we won for you to keep”
Ovvero, liberamente tradotto: “Siamo venuti in una terra lontana da piccole città per salvare il nostro onore e un mondo in fiamme. Dormiamo in piccole città di una terra lontana e abbiamo ottenuto per voi la fiducia in questo mondo”
Questa frase è tratta dagli Epitaffi di Guerra di Rudyard Kipling ed è stata incisa sul Memoriale della Base Nato di Kabul, un monumento che ricorda tutti i caduti dall’inizio del conflitto in Afghanistan, interamente progettato e costruito dai soldati italiani.
Il Memoriale è un monolite realizzato in marmo grigio e nero di Kabul con quattro bassorilievi a forma di medaglioni rappresentanti la Nato, la missione ISAF (International Security Assistance Force), l’esercito e la polizia afgana. La frase di Kypling è stata incisa sui quattro lati del parallelepipedo in inglese, in arabo e nelle due lingue locali Dari e Pasthu, proprio perché il Monumento appartenga a tutti i caduti, senza distinzione di razza, lingua e religione.
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