La neo-lingua del calcio: “Aggredire gli spazi”

di Stefano Bartezzaghi da La Repubblica, lunedì 3 gennaio 2011
Il linguaggio dei teleradiocronisti si è evoluto, ma il gergo del passato è stato sostituito da una serie di stereotipi spesso altrettanto astrusi: perché in comune, ora come allora, c’è sempre la fuga dal concreto per inseguire un italiano astratto. La fase creativo-rurale ha lasciato il posto a nuove figure geometriche e metafore sessuali

Da anni, oramai, i calciatori non hanno più “il problema di girarsi”. Devono essere cambiati o gli schemi tattici degli allenatori oppure quelli sintattici dei telecronisti. Scena d’epoca: “spalle alla porta”, mentre lo “stopper” lo “preme da dietro”, l’attaccante “riceve palla”, “cerca il disimpegno” ma “il valido contrasto del difensore rende inutili i suoi sforzi” e “la manovra offensiva non trova sbocco”.
Il problema di girarsi, per gli attaccanti, era endemico quanto il problema dei brufoli per gli adolescenti.
Ora le punte “attaccano lo spazio”, come eroi di Star Wars, o “aggrediscono la profondità”, come incursori subacquei. Vocazione altrettanto pugnace dimostrano i telecronisti. Non avvolgono più l’ascoltatore in sapienti spire e torniture sintattiche, come usavano appunto Bruno Pizzul e alla radio Sandro Ciotti, ma emettono sillabe secche ed esclamative. “Tenta. Non va”.
Toni e volumi di voce segnano l’emotività, mentre il lessico si fa tecnico e asettico, o almeno ci prova. La tendenza è cominciata quando Arrigo Sacchi ebbe l’idea (geniale nel suo genere) di chiamare “ripartenza” il buon vecchio “contropiede”. Da lì in poi l’imperativo delle telecronache calcistiche è stato quello di ribattezzare ogni azione e ogni elemento del gioco, e di farlo sempre in direzione dell’astratto, come se la lingua del calcio si fosse infettata di quel terrore del concreto che Italo Calvino aveva diagnosticato già quasi cinquant’anni fa, nell'”antilingua” dell’italiano ufficiale.
Già abbastanza fumose appaiono quelle formule di wishful thinking con cui il telecronista si è sempre sentito in dovere di incitare la squadra per cui tifa: “c’è la possibilità di andare al cross”, “c’è la possibilità di andare in contropiede”, casomai in campo non se ne stessero accorgendo. È il longevo modello, tradizionale e ancora in auge, della telecronaca “ottativa”: fatta con i se e i magari. Se non si fosse allungata troppo la palla, se il traversone fosse stato più preciso, se si fosse accorto del compagno smarcato sulla sinistra, se il mediano di spinta avesse il trolley…
Sono poi comparse le indicazioni geometriche, forse in segreto omaggio alla concezione euclidea che del calcio aveva Gianni Brera: diagonali, verticalizzazioni, triangoli, rombi, linee parallele, fasce, centrali, esterni, schemi. Si arriva a clausole iniziatiche come “tra le linee”, che sarebbe lo spazio tra centrocampo e difesa.
Più in generale sembra finita la fase creativo-rurale del “fa la barba al palo”, del “campanile” e del “ciccare”, fase rievocata perlopiù da usi come l’inquietante “piattone” o il romanesco, ma ormai ufficializzato, “spizzare” (tra spazzare e spezzare: ma spesso spizzare vuole dire spiazzare, il portiere). Gli apporti anglofoni sono pochi, di derivazione generalmente cestistica, come per “break”, “pressing” e per quel “tap-in” che ha sostituito il vecchio, e misteriosissimo, “ribadisce in gol”).
Sempre il grande Brera delineava con vigore la mitologia sottesa al football: l’Italia è squadra femmina, evitare il gol significa difendersi da uno stupro. E di fatto l’incidenza di termini a possibile sfondo sessuale è assai maggiore a quella degli ancor più fastidiosi derivati bellici (come la “cannonata”, l'”assedio”, etc.). Se il “possesso palla” è solo apparentemente la parafrasi di un diffuso complimento virile, il calciatore o la squadra di calcio si allunga, si allarga, prova a sfondare. Recentemente si è ascoltato un fantastico (sempre nel suo genere) “al limite del controfallo”, a dimostrazione che (come direbbe Antonio Dipollina) le due passioni degli italiani sono il calcio e i limiti. E poi la percussione (e “la velocità delle percussioni”) e la penetrazione e il “cerca l’inserimento”, allo scopo di “fare propria la partita”.
L’importante è che ci sia la “superiorità numerica”, che “chi offende” sappia “prendere il tempo al marcatore” nei “tempi giusti”. “Ma non è finita!”, così si deve ululare quando un'”occasione da gol” viene sventata ma la palla resta nei paraggi dell’area: la squadra allora “tiene vivo il possesso”. Il calciatore che una volta “dettava il passaggio” ora “impatta il pallone” ma “non riesce a chiuderlo”, quel medesimo pallone. Punta la difesa. “Quando si accende dimostra tutta la sua qualità” (qualità è diventato un sostantivo difettivo del plurale: le qualità non esistono, o sono rare come le acque o le sabbie). Su di lui il rigore “ci può stare”; infatti “c’è contatto”. Però “difetta di autostima”, “si aggiusta male” il pallone e finisce per tirare “dritto per dritto”. Il suo destino è crudele: “Scarica! Ma non va”.

Lascia una risposta