Inghilterra, il ‘modello’ City

di Andrea Ciprandi da http://andreaciprandi.wordpress.com/

So di essere in assoluta controtendenza rispetto al credo diffuso soprattutto in Italia. Qui, complice l’involuzione del movimento calcistico locale, si sta guardando con sollievo e orgoglio maggiori del solito ai successi dei nostri rappresentanti all’estero, col momento felice di Roberto Mancini che di conseguenza procura grande soddisfazione e induce a un’ammirazione incondizionata del progetto di cui è responsabile.

Con riguardo all’andamento positivo della creatura del tecnico di Jesi, quel Manchester City confermatosi capoclassifica di Premier League dopo la netta vittoria esterna nel derby con lo United, ci sono però parecchie cose da dire – ovvero obbiettare. Bastasse fermarsi ai risultati il discorso sarebbe presto chiuso: in Premier League è imbattuto, ha vinto 8 volte su 9, ha l’attacco più prolifico e la seconda miglior difesa, mentre in Europa dopo la qualificazione diretta alla Champions ottenuta a maggio ha ancora possibilità di passare la fase a gironi. Ma dietro a questo miracolo mancuniano c’è qualcosa di molto particolare che definirei sfacciato. Non me ne voglia chi non è d’accordo: le mie sono considerazioni di chi negli ultimi trent’anni abbondanti ha visto aprirsi molti meravigliosi cicli in Inghilterra, ma mai in queste particolarissime condizioni.

Per procedere con le puntualizzazioni conviene partire proprio da ciò che più pesa su chi col City si identifica: quel radicato complesso d’inferiorità rispetto allo United che, ora come ora, può essere superato solo accontentandosi dei numeri recenti. Benché incontestabili, questi sono pochi e oltretutto su come si sia arrivati a ottenerli pesa una politica assai diffusa nel calcio moderno che i Blues, durante cinquant’anni di stenti mal digeriti, non hanno solo rifiutato ma addirittura schifato: quella dei quattrini. Ecco allora che il miliardo di sterline sborsato dallo sceicco Mansour negli ultimi tre anni e il quasi mezzo miliardo sempre di sterline che gli sta costando l’attuale gestione fra ingaggi, stipendi e spese varie stonano decisamente rispetto al modello a cui invece è sempre stato fedele lo United nel diventare quel che è. Questi Red Devils, letteralmente plasmati da Alex Ferguson, sono i discendenti dei ragazzi del vivaio che dall’inizio degli anni Novanta hanno dominato Inghilterra prima ed Europa, a intermittenza, poi. Di soldi ne sono stati sicuramente spesi tanti, ma innanzitutto per l’ingaggio di un campionissimo all’anno, e non tutti gli anni, o per il rinnovo dello stipendio di chi già c’era e spesso, come ricordato, è arrivato direttamente dalle giovanili. Oggi è impensabile non spendere se si vuole arrivare o restare in alto, certo, ma la grandezza dei vari Real Madrid di Florentino Perez e forse un giorno PSG e anche Malaga, col City che su questa strada sembra essere in leggero anticipo, non è per me un richiamo diretto alla gloria come invece nel caso di Barcellona e, appunto, Manchester United.

Al potere dei soldi, che al City non puzzano più senza però che lì nessuno abbia il coraggio di ammetterlo, si lega direttamente l’aspetto tecnico. La squadra di Mancini è solida e quadrata ma annoia: è più lenta di quanto lo fosse il Chelsea dei tempi d’oro, altra formazione ricostruita da zero senza troppo rispetto per la sua identità storica. Ma si sa, ci sono campioni che sanno supplire alla mancanza di gioco della squadra risolvendo le cose con un colpo da maestro e allora se per esempio al posto di Jô c’è Dzeko forse le cose iniziano a quadrare. Perché il gruppo è fenomenale: come dubitare della forza del bosniaco e poi di Agüero, Balotelli, David Silva, Nasri, Tevez finché c’è stato e ancora del redivivo Milner, di Barry, Richards, Touré Yaya, Kolarov o Clichy? Ma da dove vengono tutti? Solo Richards dal vivaio. Per il resto tutti da altre grandi squadre in cui erano già diventati più o meno maturi e comunque affidabili facendo esperienza nei maggiori campionati continentali: Wolfsburg, Atletico Madrid, Inter, Valencia, Arsenal, Manchester United, Aston Villa, Barcellona e Lazio. Insomma, appare chiaro che anche senza una conduzione tattica fuori del comune si possano fare grandi cose se si hanno a disposizone questi uomini… Non come in un passato mediamente recente, quando potendo trovare dei punti fermi solo in gente come Ben Haim, Mpenza, Vassell e un vecchio Hamann, senza dimenticare Corradi e Rolando Bianchi, le cose giravano storte indipendentemente dalla bravura del manager di turno, uno dei quali fu un veterano come Eriksson. O come fino all’anno scorso, quando non rimaneva che essere noisi e basta contando su giocatori medi come Geovanni, Ireland, Garrido, Petrov e il citato Jô. Noiosi e chiaramente perdenti.

Venendo poi al derby di domenica – che come prevedibile ha fatto gridare al cambio della guardia in Inghilterra – c’è da osservare che i tre ultimi gol degli ospiti a tempo scaduto hanno reso memorabile un risultato che non avrebbe dovuto essere così netto perché la squadra di Mancini non ha imbrigliato né annichilito gli avversari. Tanto divario, come già era successo in occasione della vittoria altrettanto roboante in casa del Tottenham, è dipeso principalmente dalla giornataccia degli avversari. Molto semplicemente Welbeck, Young, Rooney, Fletcher ma soprattutto Nani e Anderson sono stati incapaci di scambiarsi la palla: non ci sono state azioni spezzate dal City quanto piuttosto palloni recuperati là dove andavano malinconicamente a finire dopo un passaggio sbagliato dei padroni di casa. E non sono stati necessari degli uno-due per scardinare la difesa dei Red Devils: è bastato avanzare, nemmeno troppo di corsa, e mantenere la sufficiente lucidità negli ultimi metri. Sarà per questo, forse, che la presunta supremazia dimostrata in questa partita non ha trovato corrispondenza nelle sfide europee, coincise a tre partite contro squadre forti e in forma come l’ultimo United non si è dimostrato (Napoli, Bayern e Villarreal) terminate rispettivamente con un 1-1 interno in cui a prendersi i complimenti sono stati gli italiani, uno 0-2 che è stata una schiacciante prova di forza dei bavaresi e un 2-1 in casa con gol decisivo solo al 93’.

Fatte queste dovute precisazioni, un elogio è comunque dovuto a Mancini, il tecnico capace di riportare un trofeo a Eastlands dopo 35 anni (l’ultima FA Cup). Dal punto di vista del gioco non sembra poter fare miracoli e la sua idea di calcio a me personalmente non piace, anche se questo chiaramente non conta. C’è però una cosa che i soldi non potranno mai comprargli ma è indispensabile per diventare e poi restare grandi: la gestione del gruppo. E all’alba di una rifondazione tecnica che avrebbe potuto creare scompensi, con l’aggravante dei difficili casi di Tevez e Balotelli, sta tenendo. Di questo, facendo finta di non sapere che sono diventati anche loro come tutti i ricchi che fino all’altro giorno insultavano, i tifosi del City devono essere ed effettivamente sono consci. E grati a suon di cori. Più alti degli sfottò di tutti gli altri.

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