Ivan Zamorano, il cileno di Milano

Pubblicato su Eurocalcio – novembre 2000

Ritratto del calciatore simbolo di un intero paese: il Cile. Zamorano dagli esordi ad oggi: il calcio come riscatto sociale e la voglia di non arrendersi mai. L’Inter, la nazionale e il rapporto con i tifosi: un amore a prova di bomba.
‘Ivan Zamorano il cileno di Milano’ è molto più di un titolo, è un slogan cantato a ritmo di ‘macarena’ dai tifosi interisti della curva Nord e cucito addosso all’attaccante di Colonia de Maipù fin dal suo primo giorno nerazzurro. Quello tra Zamorano e i suoi tifosi resta un amore a prova di bomba: in Cile, dove 14 milioni di persone hanno conosciuto e tifato l’Inter grazie a lui, è sempre lo sportivo più popolare e vince ancora nettamente il duello con il connazionale Marcelo Salas. Ad ogni trasferta europea, dalla Russia alla Svezia, non sono mai mancati i capannelli di immigrati cileni in fremente attesa davanti agli alberghi in cui l’Inter è in ritiro: stanno lì per ore a scandire il suo nome, sognando una foto o un autografo e lui, prima o poi, si concede sempre. Insomma è uno che coi tifosi ci sa fare, ed in Italia è più o meno lo stesso: nelle classifiche di gradimento dei giocatori nerazzurri Ivan Zamorano è stabilmente ai primissimi posti ma, recentemente, è successo qualcosa che ha rischiato di rovinare tutto, almeno con gli interisti. Ci riferiamo al ‘ fattaccio’ di Sydney, cioè alla decisione di Zamorano di partecipare alle Olimpiadi con il Cile, malgrado l’Inter vivesse i terribili giorni dell’eliminazione dalla Champions League. Lì l’indice di gradimento di Zamorano è improvvisamente precipitato e la società forse ha seriamente pensato di cederlo. Un sensibile calo di popolarità che però sembra già rientrato: è bastato che Ivan tornasse e piazzasse subito la zampata decisiva a San Siro con il Napoli per recuperare l’affetto, segno che il suo credito presso i tifosi nerazzurri resta inesauribile. L’episodio però resta antipatico, e lui è troppo intelligente per non sapere che l’intervista deve necessariamente cominciare da lì, e infatti attacca l’argomento per primo: “So cosa si è detto e scritto di me. Dopo l’ eliminazione con l’Helsingborg ho lasciato l’Inter per giocare le Olimpiadi col Cile, ma chi mi conosce sa che non è stato un tradimento”.
Però la società Inter ha vissuto momenti d’imbarazzo e anche il tuo legame con i tifosi ha traballato.
“Hanno detto che ho voluto tirarmi fuori da un momento difficile, ma non è così: io amo l’Inter e mi sembra di averlo dimostrato, ma non posso dimenticare il Cile. Per me il concetto di patria è fondamentale e Sydney, per il mio paese, è stata un’occasione unica, irripetibile: a 33 anni e mezzo non era giusto dire no. Ci sono cose che succedono una volta nella vita di un calciatore e l’Olimpiade è una di queste. C’è stato anche chi ha preso le mie difese dicendo delle cose sbagliate, tipo che me la sono filata per non far panchina alle spalle di Hakan Sukur, ma non è vero nemmeno questo. Io la panchina l’ho sempre fatta e senza polemiche. Ma davanti alle Olimpiadi non potevo far finta di nulla. Abbiamo vinto un bronzo storico, l’unica medaglia del Cile, ho fatto 5 partite e 6 gol, insomma è andata benissimo ma, anche se fosse andata male, mi sentirei orgoglioso di esserci stato. E’ un discorso che riguarda Ivan prima che Zamorano. Io ho sempre avuto un obiettivo nella mia vita e nella mia carriera: essere un ambasciatore del Cile nel mondo, come Fillol ieri e Marcelo Rios oggi nel tennis, e come altri, ben più importanti di me, nella cultura, penso ai premi Nobel per la letteratura Pablo Neruda e Gabriela Mistral. Il Cile è sempre stato un paese ‘ marginale’ per molti, ma anche un paese ‘negativo’, il paese di Pinochet, delle torture e delle dittature. Tra i miei doveri c’è quello di fare in modo che oggi il Cile sia famoso per cose positive, come una medaglia alle Olimpiadi. E’ per questo che ho accettato con entusiasmo la carica di ambasciatore Unicef e che ho voluto dare il mio nome ad una Fondazione che si occupa di bambini poveri. Con il Cile però c’ è l’Inter. Infatti, appena sono tornato, ho subito giocato con il Napoli, e penso di aver dato l’anima come sempre, perché amo l’ ;Inter e amo il Cile, ma non chiedetemi di scegliere, sarebbe come chiedere ad un bambino se vuole più bene alla mamma o al papà”.
Come spieghi questo legame con la gente?
“Forse perché vedono in me uno ‘vero’: sono nato da una famiglia umile e la mia storia è un po’ la storia del mio popolo, un popolo fiero, leale e onesto, al quale nessuno ha mai regalato niente. Nelle mie vene c’è sangue araucano, una stirpe che non si è mai arresa. Mio padre mi portava a vedere le partite del Colo Colo ma è morto troppo presto: avevo 13 anni, ma non ho dovuto lavorare subito, perché l’ha sempre fatto mia madre. A 16 anni ho cominciato a dare una mano ad un mio zio che aveva un camion: ci occupavamo di sgomberi. Ma io volevo il calcio, ero nato per il calcio, così a 17 anni ho preso al volo l’occasione per un riscatto, anche sociale. Ho sempre cercato di farmi avanti lottando come un forsennato”.
Chi è stato il tuo idolo? “Carlos Humberto Caszely, attaccante numero 9 del Cile e del Colo Colo. Ha fatto due mondiali, Germania ‘74 e Spagna ‘82, un lottatore, uno che non mollava mai. Mi sono ispirato sempre a lui”.
Poi l’arrivo in Italia, al Bologna.
“Al Bologna per modo di dire. Mi avevano preso insieme a Rubio ma avevo solo 21 anni e per loro ero troppo giovane per la prima squadra, così, per evitare di prestarmi ad una rivale, mi hanno mandato in Svizzera, al San Gallo. E’ stata dura, si parlava tedesco, non capivo niente, problemi con la lingua, abitudini troppo diverse, e poi faceva un freddo terribile. Ho dovuto veramente farmi forza per non andare in crisi: sai, un cileno nella Svizzera tedesca, non è mica come dirlo, ma ce l’ho fatta, anche grazie a mia madre Nelly, che mi ha seguito ovunque nella mia carriera. E’ lei il mio punto di riferimento. Poi il San Gallo ha chiesto al Bologna il mio cartellino, il Bologna non ha fatto nulla per riprendermi, e così sono rimasto lì quasi tre anni. E’ andata bene, sono diventato capocannoniere del campionato e finalmente ho cominciato a ricevere richieste importanti”.
Come quelle spagnole.
“In Spagna ho ritrovato la mia lingua, le mie abitudini. Due buone stagioni al Siviglia, poi finalmente il grande Real Madrid, ma anche lì è stata dura perché all’inizio Valdano non mi vedeva proprio, e ho dovuto lottare parecchio per impormi. Il primo anno abbiamo vinto la Coppa di Spagna e ho fatto 25 gol nella Liga, uno in meno del ‘pichichi’ Bebeto. Poi il Real ha vinto il campionato ed io, sono stato capocannoniere e miglior giocatore ibero-americano della Liga due volte. Nessun altro sudamericano c’è ancora riuscito”. In Italia però è stato ancora più difficile.
“Si, ma sentivo che era il momento di cambiare aria e non mi sono mai pentito di questa scelta, anche se finora all’Inter abbiamo vinto solo una Coppa Uefa e sfiorato uno scudetto. Il nostro problema è lo stesso da anni: non riusciamo a trovare continuità, un mese bene, l’altro male. Quest’anno, peggio di così non potevamo cominciare: fuori dalla Champions League, via Lippi, contestazioni, polemiche, ma non può andare sempre così. Adesso la ruota girerà e spero di esserci, perché se non mi mandano via loro, io non intendo muovermi dall’ Inter fino alla scadenza del mio contratto, cioè a fine stagione. So che si sente sempre che potrei andare via, tornare a Madrid. Lo dicono perché là ho lasciato un mucchio di amici, due appartamenti e perché ho anche il passaporto spagnolo, ma in realtà a Milano sto benissimo. Il rapporto con i tifosi è unico, e non solo con quelli nerazzurri”.
Una stima quasi ‘trasversale’: tu sei un interista in buoni rapporti anche con le altre tifoserie.
“Guarda, ti faccio un esempio; mi accade spesso che mi fermino per la strada milanisti o juventini per fare una foto con me o per dirmi : ’Ehi, Ivan: sei un grande, sei uno che non si arrende mai!’. Significa che hanno capito come sono io ed il loro rispetto è una cosa che mi fa molto piacere”.
Hai giocato nella Liga e poi nel campionato italiano, differenze?
“La Liga è molto spettacolare, ma mai bella e difficile come il campionato italiano: in Italia far gol è molto più difficile e, soprattutto, devi saper rinunciare al tuo egoismo di attaccante e giocare per la squadra. E poi non è mai detto che tu possa sentirti un titolare ”.
Tu però nel calcio di oggi ci stai a meraviglia: accetti la logica del turn-over senza polemiche, almeno così pare.
“Ho imparato nel corso degli anni ad accettare la panchina, ma guai a credere che non mi dia fastidio. Per me andare in panchina è durissima, e se non creo problemi è solo perché mi sforzo di pensare sempre prima alla squadra che a me. Poi mi ripeto spesso che sono nato per lottare e che preferisco lottare sul campo piuttosto che lamentarmi”.
Si dice che tra te e Salas, l’altro celebre cileno del nostro campionato, non corra buon sangue. E’ vero?
“Si dicono tante cose, e anche tante stupidaggini. E’ vero solo che con Salas in passato non abbiamo fatto vita comune e non siamo andati spesso a cena insieme, ma non è vero che non andiamo d’accordo. Anche lui è uno dei simboli del mio paese e quindi lo rispetto tantissimo, come lui rispetta me”.
Tornando al Cile e ai calciatori cileni, chi può raggiungere te e Salas in Italia?
“Giocando con l’Olimpica ho visto tanti giovani cileni che potrebbero far la loro figura in qualsiasi campionato europeo, anche in Italia: penso a Rafael Olarra, difensore, o a Reinaldo Navia, un attaccante esterno del ’ 78. Anche Francisco Rochas è un buon difensore. Poi c’è Rodrigo Tello, un laterale sinistro che è seguito da parecchi club, credo anche dal Parma. Questi, per me, sono già pronti per il grande salto nel calcio europeo e sicuramente saranno a lungo punti fermi della nostra nazionale”.
E Ivan Zamorano cosa farà da grande?
“Dopo l’Inter vorrei tornare in Cile e chiudere la carriera nel Colo Colo. E’ la squadra del mio paese alla quale sono più legato per tanti motivi: era la squadra di mio padre Luis, lui sognava di vedermi nel Colo Colo e se chiuderò la carriera lì, da lassù sarà fiero di me. In Cile il Colo è sempre stata la squadra del popolo, di coloro che si opponevano al regime di Pinochet, la squadra di chi nella vita ha sempre dovuto giocare partite ben più importanti di quelle di calcio. Da grande non so cosa farò: il calcio è la mia vita e c’ è molto da fare in Cile per i giovani calciatori. Credo di poter insegnare qualcosa, soprattutto la voglia di non mollare mai. C’è una pagina di storia importante del mio paese, a cui mi penso spesso: è il ‘combate naval de Iquique’, quando Arturo Prat, un ammiraglio cileno, abbordò da solo una corazzata peruviana e si sacrificò per il nostro paese. E’ un episodio che rappresenta perfettamente il carattere del cileno che non si arrende mai: è successo il 21 maggio 1879 e da allora il 21 maggio da noi è festa nazionale ed io, come intensità, vivo molto questo momento e lo rapporto sempre al calcio. Questa storia è un esempio per chi ha scelto di non arrendersi mai: è chiaro che parliamo di cose molto più grandi di noi, ma la filosofia è la stessa perché il calcio è lo specchio della vita”