Clarence d’Olanda

Pubblicato su Eurocalcio – ottobre 2000

Da ‘prodotto’ del vivaio Ajax a figlio del calcio totale, a 24 anni Clarence Seedorf ha già vinto moltissimo, ma cerca la consacrazione nell’Inter, con un pensiero alla nazionale ed a un nuovo ruolo.
Popolo di marinai, questi olandesi, da sempre. E, da sempre, i marinai girano il mondo, senza mai mettere radici. Oggi in Olanda i nuovi marinai sono i calciatori, come Clarence Seedorf. Originario dell’ex colonia del Suriname, ma olandese d’adozione, Seedorf è uno zingaro del calcio. Cresciuto nell’immenso vivaio Ajax, prima è approdato a Genova, altra città di marinai, poi al Real Madrid, e quindi di nuovo in Italia, all’Inter. Diversamente da Amsterdam e da Genova, a Milano come a Madrid non c’è il mare, ma Seedorf ha saputo sempre cavalcare l’onda del successo come le tempeste e ora la sua scommessa si chiama Inter. Un anno in chiaroscuro ed una falsa partenza in Champions League non l’hanno piegato. Lui è uno che va avanti per la sua strada, senza rimpianti, uno che non alza le mani, ma riparte a testa bassa, fin da quando se ne è andato di casa giovanissimo: ”Ho lasciato l’Olanda a 19 anni e ora ne ho 24: cinque anni tra Spagna e Italia ma, ad essere sincero, non ho mai sofferto di nostalgia. Amo fare sempre nuove esperienze, come uomo e come calciatore. S’imparano tante cose, lingua, abitudini, si cresce insomma ed è bello rimettersi sempre in discussione” . Parla a raffica Clarence, in un italiano con cadenze spagnoleggianti assorbite a Madrid, tappa fondamentale di una carriera già ricca di trionfi (vedi box, ndr), cominciata in Olanda. Nell’Olanda culla del calcio totale, con lo squadrone degli anni ’70, quello del doppio mondiale sfiorato a Germania ’74 e Argentina ’78, nomi da leggenda: Cruijff, Neeskens, Rensenbrink, i fratelli Van De Kerkhof, Krol, Rep, Haan, Van Hanegem, quelli che si portavano le mogli nei ritiri, perché per loro era normale, altro che sessuologo; quelli con le barbe incolte ed i capelli lunghi, le catenine e i braccialetti esotici, che oggi farebbero ancora tendenza, ma soprattutto quelli che giocavano un calcio epico, anche se Clarence Seedorf, oggi nazionale olandese, non può ricordare nulla in presa diretta della squadra più bella e più forte dei formidabili anni ‘70: “Sono nato nel ’76, quindi praticamente non c’ero: so però ; che l’Olanda nel calcio s’identifica per tutti con quella grande squadra, due mondiali perduti per un soffio! Sono cresciuto sentendo parlare di Cruijff e Neeskens, ho visto tonnellate di videocassette, ne ho discusso spesso con mio padre che, oltre a farmi da procuratore, è un grosso intenditore di calcio: grande gioco, grandi campioni, grande Olanda!” . Proprio in quegli anni è nato, o si è solo riscoperto, come sostiene qualcuno, il calcio totale, quello senza ruoli fissi, quello dove l’attaccante te lo potevi trovare a coprire le spalle al terzino, perché fino a qualche anno fa i difensori di fascia si chiamavano ancora così, quel calcio insomma dove il libero ti poteva anche andare in gol, inso mma il calcio totale di Rinus Michels e, forse, la difficoltà d’ incasellare Seedorf dentro un ruolo specifico nasce proprio da lì: “A modo mio, anch’io sono figlio del calcio totale, anzi forse lo sono più io di molti altri, perché all’Ajax, dove ho imparato tutto, mi hanno subito fatto capire che, se volevo fare il calciatore, dovevo essere anche pronto a ricoprire più ruoli. E guarda caso sono nato attaccante, segnavo anche tanti gol poi, attorno ai 15 anni, mancando gente in mezzo, mi hanno messo un po’ dietro e da lì mi sono trasformato in centrocampista. Nell’Ajax, ma anche nella Sampdoria e nel Real, ho cambiato spesso posizione in campo, giocando un po’ dappertutto: destra, sinistra, davanti alla difesa, dietro le punte. Sono sempre stato un calciatore polivalente, un centrocampista multifunzionale, almeno fino ad oggi”.
Ritieni che stia cambiando qualcosa?
“Sto cambiando io, perché sento sempre più spesso il bisogno di diventare uno ‘specialista’, cioè di specializzarmi nel ruolo che più mi piace, quello di trequartista dietro le punte, meglio se le punte sono due, così da poter fare sempre meglio, soprattutto in zona gol. Senza dimenticare però che prima di tutto viene la squadra, alla quale ognuno deve saper essere utile ovunque. Parlo non solo per l’ Inter, ma anche per la nazionale. Ritengo fondamentale aver imparato a giocare in posizioni diverse, perché la mia filosofia è quella di lavorare sempre per la squadra: protagonista è sempre la squadra e ognuno di noi deve mettersi al servizio dell’altro e quindi della squadra. Però all’interno di un collettivo tutti abbiamo un ruolo che ‘ ;sentiamo’ di più, un ruolo in cui uno si sente più forte, un po’ come una materia a scuola, e per me il ruolo chiave è a ridosso dell’attacco. Oggi a 24 anni la mia idea è questa”.
Hai parlato dell’Ajax: è ancora il club simbolo del calcio olandese?
“Sicuramente. L’Ajax è stata una grande scuola per tutti quei calciatori olandesi che hanno fatto fortuna all’estero. All’Ajax c’era una sola filosofia: quella di costruire i propri giocatori fin dal settore giovanile, cominciando a mandarli in giro per il mondo da giovanissimi tutti insieme per fare esperienza nei tornei internazionali. Una filosofia che portava in prima squadra interi blocchi di giovani. Ultimamente questa filosofia è stata in po’ abbandonata e il club ha attraversato momenti difficili. Quinto posto l’anno scorso, sesto due anni fa: non sono cose da Ajax! E questo perché anche lì si è cominciato a prendere i giocatori da tutte le parti, dopo la sentenza Bosman. Ma non credo che si possa parlare di declino, soprattutto oggi, perché, con il ritorno in panchina di Co Adriansee, che era stato direttore sportivo del settore giovanile, l’Ajax sta tornando a puntare sui nostri giovani. Presto il vivaio tornerà a ripopolarsi, e i lancieri torneranno a vincere”.
Chi è stato il tuo idolo?
“Frankie Rijkaard: il mio idolo è stato lui, anche se è chiaro che, avendo qualità diverse, non ho mai cercato di emularlo, però penso di avere imparato molto guardandolo. A proposito di duttilità, nella sua carriera lui ha fatto di tutto, anche il difensore. Mi è sempre piaciuto come giocatore e come persona. Poi è bravo anche come allenatore: in nazionale è stato sfortunato, ma coerente, perché aveva detto che se non avesse vinto l’Europeo se ne sarebbe andato. Nessuno poteva fargli cambiare idea, lui è così!”.
In Olanda si predica sempre un calcio offensivo?
“L’idea di base è sempre quella, anche se, dal punto di vista tattico, il calcio è in continua evoluzione; ma se parliamo dell’ idea, della filosofia, dello spirito che anima il calcio stesso, non c’ è dubbio: in Olanda si insegna sempre un calcio offensivo. Un calcio da imporre all’avversario, interpretato da uomini che sappiano rendersi utili in ogni zona del campo, davanti, dietro, a destra, a sinistra. In questo senso il calcio totale non è mai morto. E mi sembra che la nostra scuola sia sempre molto quotata: gli olandesi sono tra i calciatori più richiesti del mondo. Molti giocano nelle migliori squadre e nei campionati migliori” .
E allora perché il calcio olandese non riesce ad imporsi, anche a livello di nazionale?
“E’ difficile rispondere. Da trent’anni a questa parte il calcio olandese ha sempre avuto le qualità per vincere, ma nel momento decisivo è quasi sempre mancato quel ‘qualcosa’ che differenzia due squadre più o meno sullo stesso piano, lo puoi chiamare fortuna o freddezza, o continuità: quel quid di indefinito che porta una squadra a vincere e l’altra solo alla finalissima. La nazionale dell’ ;88, ad esempio, ha vinto un Europeo ma non è riuscita ad aprire un ciclo: che delusione i mondiali del ’90! Eppure c’era tutto per vincere, c’erano Gullit, Van Basten, Rijkaard, campioni assoluti, ma non è bastato. La nostra, oggi, è un’ottima nazionale. Abbiamo fatto Mondiale ed Europeo, ma non abbiamo vinto: in Francia siamo usciti con l’Italia dopo aver sbagliato un rigore dopo l’altro. Tutti ci hanno fatto i complimenti perché abbiamo giocato con mentalità offensiva, da veri olandesi, ma nel calcio conta il risultato. Adesso ci riproveremo perché c’è una squadra che arriverà al prossimo Mondiale nel pieno della maturità: gente come Davids, Overmars, Kluivert e via dicendo e, anche se Winter e Bergkamp hanno deciso di chiudere con la nazionale, nel 2002 l’Olanda sarà la squadra da battere”.
E la tua esperienza all’Inter?
“Ottima. Dopo la parentesi a Genova e gli anni di Madrid, ci tenevo a rimettermi in discussione nel campionato più difficile del mondo: ho lasciato Madrid dopo aver vinto scudetto, supercoppa, Champions League e Intercontinentale, praticamente tutto. Nell’ultima fase c’è stato qualche problema con l’allenatore (il gallese John Toshack, ndr) ma non è per questo che ho cambiato. Avevo voglia di provare a vincere in Italia: qui non è come da altre parti, dove ci sono due, tre squadre al massimo che possono vincere lo scudetto. Qui ogni anno ce ne sono sei, sette, ed è chiaro che è più difficile, ma è anche il campionato più stimolante, almeno per chi come me ama le grandi sfide. All’inizio ho avuto qualche problema, come tutti quelli che cambiano a metà stagione, ma quest’anno va meglio, molto meglio. Ora mi sento pronto a vincere qualcosa d’importante in Italia, con l’ Inter e, al di là di tutti i problemi, sono convinto che ci riusciremo! Una cosa è certa: quello che ho vinto non mi ha appagato, perché vincere qui da voi è un’altra cosa. E poi voglio vincere con la nazionale, ma anche lì occorre pazienza, l’unica cosa che nel calcio non ti puoi permettere”.